di
Francesco Curridori
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venerdì
17 settembre 2010
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Ormai raccontare le vicende del Partito democratico
è come sparare sulla croce rossa. Dalle politiche del 2008 in poi tutti i
titoli dei maggiori quotidiani italiani sono stati perlopiù: Pd in stato
confusionale. Alla lunga questa finisce per
diventare una frase fatta ma è la più adatta per descrivere l'attuale
situazione del primo partito d'opposizione. Non serviva la sfera di cristallo
per pronosticare quello che sarebbe potuto succedere e che ora puntualmente
si sta verificando, ossia il risveglio ufficiale della minoranza interna
guidata da Walter Veltroni.
Apparentemente potrebbe sembrare una semplice lotta
di potere tra due correnti in contrasto da più di vent'anni, ma in realtà la
contesa tra i «democrat» veltroniani e gli «ulivisti» dalemiani non è altro che
l'eterna lotta tra riformisti e massimalisti. Solo che nella sinistra italiana postmoderna,
quella del dopo 1989 per intenderci, chi vuole prendere il potere assume di
volta in volta l'uno o l'altro ruolo. A seconda del momento politico
contingente chi guida l'opposizione interna al partito (sia esso Pds, Ds o
Pd) decide se è il caso di assumere una linea più riformista, che escluda
quindi i partiti di estrema sinistra, o viceversa scelga la via dell'Ulivo o
dell'Unione e proponga di inglobare nella coalizione chiunque si opponga al
«regime berlusconiano».
Le formule politiche come «la vocazione
maggioritaria» o il «nuovo ulivo» sono create ad arte per attirare
l'attenzione dei politologi, ma finiscono con l'allontanare gli elettori. Lo smarrimento dell'elettore di sinistra cresce
sempre più a dismisura quanto più si susseguono le miriadi di dichiarazioni
dei vari leader, locali o nazionali, del centrosinistra. Chi di
recente ha puntato il dito contro l'establishment del Pd non è stato
solo Veltroni col suo documento, ma anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi
ha attaccato il segretario Pierluigi Bersani, mentre l'ex sindaco di Venezia
Massimo Cacciari ha definito «una puttanata» il nuovo Ulivo.
Facile dunque prevedere che in questo marasma
generale a trarne vantaggio siano stati Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. La sinistra radicale ed il popolo viola sono stati
i protagonisti delle più grandi contestazioni avvenute durante la Festa
democratica di Torino dove Raffaele Bonanni, leader della Cisl, è stato
accolto con i fumogeni, mentre Franco Marini e il presidente del Senato
Renato Schifani sono stati fischiati. Segno, questo, di un partito in rotta
di collisione senza una leadership forte che abbia deciso se
schierarsi con l'ala massimalista o con l'anima riformista della sinistra. Il
Partito democratico annaspa e, in attesa di trovare tale leadership
forte, si dilania al suo interno per la lotta alla poltrona di segretario
anche perché il posto di candidato premier è vacante. Perché? Perché
si è sciolto il nodo delle primarie? No, le primarie non si faranno perché
l'ipotesi di elezioni, ogni giorno che passa, si allontana sempre di più e
quindi cessa la necessità di scegliere se il segretario del partito debba
essere anche il candidato premier (come vollero i veltroniani nel
2008), se si debbano fare le primarie (come vorrebbe Vendola) oppure se, come
leader, la scelta debba ricadere su un «papa
straniero», come ipotizzato in questi giorni da Veltroni e dai suoi
fedelissimi. Quest'ultimo nodo verrà sciolto molto più facilmente se, come
sembra, si concretizzerà la rottura con una scissione.
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