54% i sì, 46% i no. È questo il
verdetto del referendum sull’accordo sindacale dello stabilimento Fiat di
Mirafiori che inchioda le posizioni ambigue e troppo spesso massimaliste del
Partito democratico. Il
principale partito d’opposizione si è trovato ancora una volta diviso e
impreparato su un tema cruciale per l’economia italiana.
Se da un lato, nei giorni scorsi,
era montata una forte polemica tra Massimo D’Alema e il segretario Fiom
Maurizio Landini su chi fosse più vicino al mondo operaio, dall’altro lato
Antonio Di Pietro approfittava dell’atteggiamento ambiguo del Pd per farsi portatore delle istanze del fronte del
no. A guardare gli esiti del referendum si può notare come i più ostili
all’accordo siano stati soltanto gli operai della catena di montaggio
iscritti alla Fiom e ai Cobas le cui posizioni sono state sostenute solo da
Nichi Vendola e dalla sinistra antagonista di Marco Ferrando e da Marco Rizzo.
Stavolta però ha vinto la linea del cambiamento contro quello del
mantenimento dello status quo.
Non si capisce però se questa
possa essere anche una vittoria del Pd perché,
dopo le prime aperture a Marchionne da parte di esponenti come Piero Fassino,
Enrico Letta e Sergio Chiamparino, il Partito democratico ha dato
l’impressione di non aver avuto il coraggio di rompere definitivamente con le
posizioni massimaliste della Cgil e della Fiom. Le reazioni immediatamente
successive all’esito del voto sono legate ad una linea politically correct,
che in italiano si potrebbe tradurre come «cerchiobottista». La verità è
un’altra.
Dentro il Pd convivono (molto
male) due anime: quella ex comunista legata ancora alla Cgil e quella ex
democristiana ancora fortemente legata alla Cisl e alla sinistra cattolica. Nel Pd si ripresenta sempre una forte spaccatura
tra due anime. Spaccatura che si risolve con il vecchio modello
del «centralismo democratico». Si avvia la discussione ma poi la
minoranza è costretta a tapparsi la bocca e all’esterno si cerca di
nascondere le divisioni, trovando degli escamotage che presentino il partito
sempre compatto. È successo così anche durante la direzione nazionale dove i
veltroniani hanno prima rimesso i loro incarichi, poi hanno dichiarato che
avrebbero votato no alla mozione del segretario Pierluigi Bersani e infine
non hanno partecipato al voto e i loro incarichi sono stati confermati. In
pratica tanto rumore per nulla. Sembrerebbe così, ma in realtà Chiamparino ha
dichiarato che si è stufato di questa sinistra; Giuseppe Civati, braccio
destro del sindaco di Firenze Matteo Renzi, si dice deluso da
Bersani. Chissà se veramente lui e Renzi riusciranno
a «rottamare» questa classe dirigente che è sempre la stessa da
vent’anni? Una classe dirigente che, quando è nato il Pd, vede le primarie
come la panacea di tutti i mali, ma nello stesso tempo anche il morbo
principale del partito. Bersani non le vuole perché teme Vendola e non
ha il coraggio di ammettere che preferirebbe che scomparissero.
Il Modem, movimento democratico,
area di riferimento dei veltroniani, teme che senza le primarie l’attuale
segretario, su consiglio del mentore D’Alema, voglia abdicare lo scettro di
candidato premier (come
stabilirebbe lo statuto del Pd) per dar vita ad una coalizione che comprenda
Vendola, Di Pietro e Pier Ferdinando Casini e che veda quest’ultimo sfidante
di Silvio Berlusconi. Una prospettiva quest’ultima impraticabile e perciò il
Pd dovrà scegliere: o con Sel e Idv o con il Terzo polo, ma data l’attuale
situazione alquanto critica pare che ancora una volta prevarrà il
ma-anchismo, l’indecisione più totale. E intanto si fanno sempre più
insistenti le voci di un addio degli ex popolari guidati da Giuseppe Fioroni
e dell’ex rutelliano Paolo Gentiloni (i due che durante la direzione
nazionale avevano rinunciato agli incarichi di partiti) che passerebbero con
il terzo polo o formerebbero un ennesimo nuovo partito di centro. La prossima
puntata di quella che sembra una lunga e intricata telenovela è prevista per
il 22 gennaio, giorno in cui Veltroni a Torino terrà il suo Lingotto 2.
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venerdì 20 aprile 2012
L'ambiguità del Pd sul referendum di Mirafiori
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