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di Francesco Curridori
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Lavoro, primarie e cozze. Il Partito democratico si trova a dover affrontare una fase cruciale della sua breve vita.L’appoggio al governo di Mario Monti e le modifiche all’articolo 18 accrescono le distanze tra chi, come i veltroniani o i lettiani, considera l’attuale Esecutivo la vera espressione del riformismo italiano e chi, come i bersaniani di fede socialdemocratica, lo vedono soltanto come un male necessario e temporaneo. I primi hanno accettato e sostenuto senza remore sia la riforma delle pensioni sia la riforma del mercato del lavoro che il ministro del Welfare Elsa Fornero dovrebbe mettere in cantiere già alla fine di questo mese. I secondi Stefano Fassina (responsabile economico del partito) e il dalemiano Matteo Orfini sono sempre attirati dalle sirene della Fiom che sciopera contro la riforma dell’articolo 18, salvo poi rinunciare affermando che la protesta non si doveva estendere anche ai NO TAV.
I «democrat-montiani» poi vorrebbero che la strana maggioranza Pd-Pdl e Terzo Polo si ricomponesse anche dopo le politiche del 2013, mentre sia il segretario Pier Luigi Bersani sia Massimo D’Alema stanno già pensando a come arredare Palazzo Chigi una volta vinte le elezioni. Vittoria che non è scontata visto che sarà sempre più difficile proporre la foto di Vasto come simbolo di unità e pace dei futuri governanti del nostro Paese.
Sia Nichi Vendola sia Antonio Di Pietro, diversamente dal Pd, non sostengono questo governo e il centrosinistra riformista si trova nella difficoltà di dover affrontare le prossime amministrative dovendo cercare di allearsi proprio con l’Italia dei Valori e Sinistra Ecologia e Libertà se vuole vincere. Elezioni che si fanno sempre complicate visti gli esiti delle primarie a Genova e a Palermo. Il primo partito di centrosinistra italiano, che nelle intenzioni dei suoi fondatori sarebbe dovuto essere «a vocazione maggioritaria», continua a subire una sconfitta dietro l’altra in occasione delle elezioni primarie che egli stesso ha introdotto in Italia. In principio fu la Puglia di Vendola, poi Napoli con Luigi De Magistris, Milano con Giuliano Pisapia e Cagliari con Massimo Zedda e ora è il turno di Marco Doria a Genova e di Fabrizio Ferandelli a Palermo. Laddove il candidato vincente non è di gradimento ai vertici del partito si decide di annullare o comunque di non accettare il risultato finale proponendo in ogni caso un proprio candidato. È stato così a Napoli con Mario Morcone e probabilmente sarà così anche per Palermo. Si, è vero, è quasi certo che le primarie a Palermo sono state inquinate da Raffaele Lombardo che ha voluto far vincere un uomo vicino a Giuseppe Lumia, il senatore democratico artefice dell’alleanza tra il Pd siciliano e l’Mpa. Ma è anche vero che il Pd ha presentato due candidati, uno «renziano»(Davide Faraone) e l’altro, appoggiato dalla nomenklatura, è Rita Borsellino che già nel 2006 era stata candidata alla presidenza della regione Sicilia ed aveva perso contro Salvatore Cuffaro. In sostanza un volto «già vecchio» e perciò poco appetibile. C’è da chiedersi quali e quanti saranno i candidati per la poltrona di sindaco del capoluogo siciliano e su quale cavallo punterà il Pd.
E infine ad agitare le acque del Pd ci sono le cozze del sindaco di Bari Michele Emiliano che ha avuto il coraggio di accusare Silvio Berlusconi dichiarando sulle pagine de La Stampa che: «Vero, vent’anni di berlusconismo hanno reso difficile anche per me tenere fuori l’impresa dalla politica. Ho dato per scontato quello che scontato non è. Anzi, non deve essere». Ora dando per assodato che da garantisti non possiamo chiedere le dimissioni ad un sindaco accusato di essere stato corrotto con un paio di chili di cozze, si può indubbiamente pretendere che si smetta di attribuire tutte le colpe e i mali di questo Paese sempre alla stessa persona. Insomma finché la sinistra non uscirà dalla sindrome di Sabina Guzzanti (che vede Berlusconi ovunque) difficilmente riuscirà a dipanare il bandolo delle sue matasse
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