martedì 24 aprile 2012

Un film già visto

Leader carismatici che si fanno da parte, partiti tradizionali che vengono travolti dagli scandali, nuovi movimenti che si affacciano sul panorama politico in nome dell’antipolitica e contro la partitocrazia. No, non si tratta di una rievocazione storica delle vicende legate alla Tangentopoli del 1992. I protagonisti non sono Bettino Craxi, Giulio Andreotti o Arnoldo Forlani. Vent’anni dopo i protagonisti sono cambiati ma la storia è la stessa, così come prevede la norma gattopardesca del “tutto cambia perché non cambi nulla”. Finora a uscire di scena, per il momento, sono stati Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, ma il copione del film non è cambiato. Al posto di Severino Citaristi e di Vincenzo Balzamo, rispettivamente tesoriere della Democrazia cristiana e del Psi, ora sono indagati Luigi Lusi e Francesco Belsito per la Margherita e per la Lega.
A decretare la fine della Prima repubblica però non furono soltanto le inchieste giudiziarie, ma anche le sollecitazioni provenienti da fuori il Palazzo. La società civile tramutò la sua indignazione in partecipazione al voto nei quesiti referendari proposti dai pattisti di Mario Segni e dai radicali. L’introduzione forzata del sistema bipolare e i due governi tecnici di Giuliano Amato e Carzo Azeglio Ciampi segnarono una cesura tra la fine del pentapartito e il nuovo corso berlusconiano.
Ma questo è solo un’analogia molto secondaria rispetto alle altre che invece sembrano far pensare a un déjà vu. Prima tra tutte il riaffiorare di movimenti che cavalcano l’antipolitica. Sarebbe troppo scontato paragonare il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo alla Lega Nord degli esordi politici di Umberto Bossi. Tutta la sinistra, Bersani, D’Alema e Vendola in primis, si è schierata in questo senso per screditare i grillini e cercare di fermarne l’avanzata.
Per spiegare il fenomeno del “grillismo” i giornalisti, gli opinion leader e i politologi hanno riempito quintali di pagine senza giungere mai a una sua definizione reale e completa. Ciò è avvenuto per la scarsa conoscenza della Rete che, in realtà, altri non è che un luogo di incontro, un territorio. A conti fatti per i grillini la Rete non è altro che ciò che per i leghisti è la Padania, un territorio inevitabilmente molto più piccolo del web ma al tempo stesso con contorni geografici difficilmente delineabili.
La Rete non è un luogo fisico così come la Padania non è uno Stato né una nazione. Il popolo della Rete è talmente vasto ed eterogeneo che non è identificabile solo con i grillini o con il popolo viola così come la Lega non ha un popolo padano di riferimento. Per quanto la Lega possa essere (stata) forte non ha mai ottenuto più del 30-40% al Nord e ciò significa che un buon 70% di “nordisti” non si considera appartenente al “popolo padano”. In sintesi non tutti coloro che navigano su internet sono “grillini” e anche coloro che visitano il blog del comico genovese non è detto che tutti al 100% approvino quello che leggono, così come solo una minoranza di italiani (che generalmente va dal 5 al 10%) si considera padano.
Sebbene entrambi i movimenti devono la loro fortuna per lo più al voto d’opinione, esistono delle differenze per quanto riguarda  il blocco sociale di riferimento: i giovani internauti e gli intellettuali guardano con favore a Grillo, mentre gli agricoltori padani e i cummenda del Nord produttivo votano Lega. Ciò a cui siamo assistendo in questo momento è proprio un film già visto. La classe politica tradizionale considera Beppe Grillo un volgare populista così come avveniva nei primi anni ’90 con Bossi. Entrambi invece hanno saputo porre sull’agenda setting della politica delle issues completamente nuove rispetto al passato. Mi riferisco al federalismo di marchio leghista e all’attenzione che i grillini pongono sulle nuove tecnologie e sulle energie rinnovabili.
Questa è la prima parte del film con Grillo protagonista. Bisognerà aspettare ancora qualche anno per vedere se il finale del fim sarà lo stesso di Bossi e cerchisti magici, mentre basterà attendere qualche giorno o settimana per sentire paragonare Beppe Grillo a Marine Le Pen.
Oltre al déjà vu vecchio di vent’anni sulla fine dei partiti tradizionali e sull’antipolitica, ce n’è un terzo molto più recente che vede come attori protagonisti Casini e Alfano. Il primo ha annunciato unilateralmente la fine dell’Udc e la nascita del Partito della Nazione proprio come fece Berlusconi cinque anni fa, e proprio come nel 2007 Fini e i suoi sono rimasti spiazzati dall’iniziativa e stanno sommessamente esprimendo i loro distinguo. Alcuni futuristi pensano sia meglio una federazione.
Ora sono passati cinque anni e Alfano non ha il carisma di Berlusconi per salire sul predellino di una macchina e fare annunci roboanti, ma di fatto ha già chiuso il Pdl proprio come avvenne con Forza Italia quando nacque il Pd. Cambiano gli attori ma il copione è identico.

Francesco Curridori tratto da: 
http://www.thefrontpage.it/2012/04/24/un-film-gia-visto/

lunedì 23 aprile 2012

La ricetta? “Ridurre la pressione fiscale”

Intervista a Nicola Rossi, presidente dell'Istituto Bruno Leoni

di Francesco Curridori tratto da: http://www.t-mag.it/2012/04/23/la-ricetta-ridurre-la-pressione-fiscale/



Tasse, disoccupazione e debito pubblico. I dati sull’andamento dell’economia italiana delineano un quadro sempre più preoccupante. Se da un lato è vero che lo spread è sceso di oltre 170 punti rispetto a un paio di mesi fa e ora oscilla attorno ai 400 punti, dall’altro lato la disoccupazione è al 9,3% e sale al 32% se si considera soltanto quella giovanile.
L’Istat ha inoltre calcolato che gli inattivi nel 2011 sono stati circa 3 milioni e l’Osservatorio della Cgil indica un +21% di ore di cassa integrazione dall’inizio dell’anno. A frenare la crescita incide soprattutto l’elevata pressione fiscale, arrivata ormai al 45%. Come spiega Nicola Rossi, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, “aver puntato praticamente tutto sul versante delle entrate ha permesso al governo di superare un momento molto difficile per il bilancio pubblico però ha impedito ogni possibilità di crescita immediata e futura”.
Ad aggravare la situazione è anche il crescente numero di suicidi. Secondo l’Eurispes tra il 2010 e il 2011 ben 14mila persone si sono tolte la vita e “ciò che di nuovo si presenta in maniera preponderante per quanto riguarda la situazione italiana sul tasso di suicidi – si legge nel rapporto Eurispes – è la sua relazione con la condizione economica definita all’interno di una crisi generale del sistema produttivo, intrecciandosi a sua volta in modo sistematico anche con gli alti tassi di disoccupazione nel Paese”. Dall’inizio dell’anno ad oggi, invece sono ben 24 gli imprenditori che non hanno retto alla crisi e si sono tolti la vita, ma questo fenomeno non è da addebitarsi esclusivamente all’aumento delle tasse a cui le imprese sono soggette. “I suicidi – spiega Nicola Rossi – dipendono anche dall’atteggiamento che il sistema bancario ha assunto e dalla difficoltà che la burocrazia frappone all’imprenditore. In un momento difficile come questo non c’è nulla che aiuti lo sforzo dell’impresa. I concorrenti fanno i concorrenti, i clienti pensano di poter ritardare all’infinito i pagamenti, i fornitori pensano di poter essere pagati immediatamente, la burocrazia, le banche e il fisco interpretano in maniera molto rigida il loro mestiere e quindi l’imprenditore è solo e da solo fa una battaglia che è di tutti”.
Secondo Rossi se si vuole rilanciare la crescita e abbattere il debito pubblico, che al momento ammonta 1,935 miliardi di euro, occorre perciò ridurre le tasse: “Quello che bisognerebbe fare non è attuare nuovi sgravi, ma servirebbe una riduzione generalizzata della pressione fiscale, possibilmente in più direzioni attraverso tagli e dismissioni degli asset pubblici, ma qui entra in gioco la cultura di governo che non sembra favorevole a misure di questo tipo”.
Un’operazione di questo tipo non risolverebbe definitivamente il problema del debito ma “anche se si trattasse di 100-200 miliardi di euro, cifre paragonabili alle dismissioni di vent’anni fa – afferma il senatore ex Pd -, porterebbero un vantaggio cospicuo al bilancio dello Stato perché con i tassi di interesse correnti si risparmierebbe non poco dal punto di vista dell’onere del servizio del debito”.
E la riforma dell’articolo 18 può aiutare le imprese a creare maggiore occupazione? “L’imprenditore vive di certezze – conclude Rossi – e questa riforma non offre certezze di nessun tipo perché l’area continua a rimanere legata all’intervento del giudice. Lo stesso vale per i giovani che al momento nemmeno loro hanno certezze e a volte mi chiedo come sia stato possibile arrivare a una soluzione come questa. La riforma Ichino è invece una proposta sostenuta anche da posizioni liberali”.

venerdì 20 aprile 2012

Donne, case e triumviri

 

Prima Fini, poi Berlusconi e infine Bossi. Il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni non esiste più. Donne, case e triumviri hanno decretato il declino dei leader. Il presidente della Camera è l’unico ancora alla guida di un partito, anche se formalmente è Italo Bocchino che parla a nome di Fli. La parabola politica di Fini è però iniziata a causa di un triumvirato. Come ci si può dimenticare della conversazione rubata dal Tempo tra Gasparri, La Russa e Matteoli? Era il lontano 2005 e i colonnelli già demolivano la figura del leader carismatico che aveva traghettato la destra dalla conventio ad excludendum al governo. Era l’inizio della fine. Poi nel 2007 arrivò Elisabetta Tulliani, nel 2008 il Pdl e la terza vittoria alle Politiche, nel 2010 si consuma la rottura con Berlusconi e di lì a poco lo scandalo della casa di Montecarlo. Donne, case e triumviri appunto.
Dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi si sa tutto e forse si è saputo anche troppo e infatti la sua uscita di scena è stata determinata da scandali pseudo-sessuali e su cui la magistratura deve ancora ben individuare quali sono le responsabilità del Cavaliere. Il berlusconismo è finito definitivamente a puttane mentre i guai per il Pdl sono dovuti a una cattiva gestione da parte dei triumviri che fino a poco tempo fa ne guidavano le redini: Sandro Bondi, Denis Verdini e Ignazio La Russa. Il primo è caduto in disgrazia per la cattiva gestione del dicastero che gli era stato affidato (Pompei docet), il secondo deve le sue sventure alle indagini sulla P3, mentre l’ex aennino La Russa è stato da sempre poco accettato dalla maggioranza forzista del partito. Ora il futuro del Pdl dipende tutto dal segretario Angelino Alfano.
Ieri è toccato a Umberto Bossi lasciare la leadership del suo partito, dopo essere stato travolto anche lui da un’indagine giudiziaria che coinvolge direttamente “the family” Bossi. Dopo la malattia che lo ha colpito nel 2004 il senatùr non era più lo stesso e il cerchio magico che gli stava attorno ne ha approfittato. Con la complicità del tesoriere Belsito la moglie e la fedele Rosy Mauro hanno messo le mani sul patrimonio del partito. Ancora una volta le donne e le case (vedi la ristrutturazione di Gemonio) sono la rovina di un leader.
Ora la Lega sarà retta da un triumvirato: Roberto Calderoli, Roberto Maroni e Manuela Dal Lago. I tre saranno capaci di non far naufragare la Lega Nord? O saranno la rovina del partito come o peggio degli altri due triumvirati sopra citati? È chiaro che dei tre il successore di Bossi con più chances è Maroni anche perché il nome di Calderoli compare tra le carte delle inchieste su Belsito and company. Riuscirà l’eterno numero due a diventare il numero uno senza spaccare il partito? Dalle urla della base che hanno accompagnato la sua uscita da via Bellerio pare molto difficile.
Fini, Berlusconi e Bossi sono però tre leader molto diversi tra loro e difficilmente rimpiazzabili perché, nonostante gli errori, a ognuno di loro va riconosciuto un merito. A Fini va dato atto di aver tolto la destra dalla fogna e averla portata al governo, a Berlusconi va riconosciuto di aver portato il bipolarismo e la democrazia dell’alternanza in Italia, costruendo il primo vero partito liberale di massa (in verità molto di massa e molto poco liberale nei fatti) e a Bossi va il merito di essere stato il portatore delle istanze della “questione settentrionale”. A differenza dei primi due, Bossi non ha creato soltanto un partito personale, ma una nuova ideologia: il leghismo.
Il bossismo nei fatti non è mai esistito, mentre il berlusconismo è stata parte integrante della Seconda Repubblica e probabilmente finirà con essa. Il leghismo è destinato a durare? E il nuovo centrodestra come e da chi sarà composto? È molto probabile che i leader del futuro saranno: Maroni, Casini e Alfano. Un nuovo triumvirato che però di nuovo ha ben poco e sa già di vecchio. Dalle macerie della Seconda Repubblica nascerà la Terza, sperando che non porti con sé altre macerie.

Lavoro, i dolori del Partito democratico

di Francesco Curridori tratto da:http://www.fareitaliamag.it/2012/03/27/lavoro-i-dolori-del-partito/

Lavoro, Cgil e Pd sono come tre entità distinte e distanti. L’appoggio al governo di Mario Monti sta creando non pochi problemi al Partito democratico ora che si tratta di approvare la riforma del mercato del lavoro e, con essa, anche le discusse modifiche all’articolo 18.
Nell’incontro di twitteriana memoria con Monti, Alfano e Casini, Pierluigi Bersani si era convinto che il fantomatico “modello tedesco” sarebbe stato quello che il ministro Elsa Fornero avrebbe presentato di lì a pochi giorni. E invece la conferenza stampa di martedì è stata una doccia fredda per i democrat: il reintegro per giusta causa è garantito solo per causa discriminatoria, decide il giudice nei licenziamenti per motivi disciplinari ed è totalmente escluso per motivi economici. L’indennizzo diventa l’opzione principale nella risoluzione dei licenziamenti individuali. La Cgil, per bocca della segretaria Susanna Camusso, si è opposta fin da subito a qualsiasi tipo di riforma, poi ha aperto sul modello tedesco, ma anche domenica dalla Annunziata ha ribadito che se non si troverà un accordo a fine maggio potrebbe arrivare lo sciopero generale. La sua linea non è mai cambiata ma il pranzo col premier Monti a Cernobbio potrebbe aver aperto uno spiraglio.
È il segretario del Pd a trovarsi stretto tra la linea riformista-filomontiana del giuslavorista veltroniano Pietro Ichino e la linea socialdemocratica di Stefano Fassina, responsabile economico del partito. Se si legge il blog dell’economista veltroniano si può notare come Ichino ritenga che “il progetto del governo sul lavoro corrisponde sostanzialmente al modello tedesco” in quanto la giurisprudenza tedesca di fatto prevede il reintegro solo in caso di discriminazione o di rappresaglia nei confronti del lavoratore licenziato. Ichino propone inoltre un indennizzo automatico sia per motivi oggettivi che per cause economiche in modo da non ingolfare i tribunali. Le dichiarazioni di questi giorni di Stefano Fassina vanno invece in direzione totalmente opposta e anzi auspica che il testo venga modificato in Parlamento seguendo il modello tedesco così come richiesto dalla Camusso e ripristinando la concertazione sindacale.
All’interno di questo contesto Bersani non ha potuto far altro che mostrare il suo stupore per la decisione del governo e riallinearsi alle posizioni della Cgil per evitare una frattura nel fianco sinistro del Pd affermando che non si possono “monetizzare” i licenziamenti e promettendo che il testo sarà modificato in Parlamento.
La mediazione di Giorgio Napolitano per ora è servita solo ad evitare il ricorso alla decretazione d’urgenza, ma non ha fermato la determinazione del presidente Mario Monti che ieri, ha detto di non amare la filosofia andreottiana del tirare a campare e perciò “se il Paese attraverso le sue forze sociali e politiche non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro non chiederemmo di continuare per arrivare a una certa data”. La riforma Fornero e questo governo, al momento, dipendono quindi esclusivamente dall’atteggiamento del Pd e da quello del suo segretario che si è subito affrettato a ribattere che “il Paese è pronto ma serve il dialogo”. Solo il futuro della sinistra potrà dirci dove porterà questo continuo tirar la corda prima dal versante liberal-riformista e poi da quello socialdemocratico.

Alla ricerca della legge elettorale perfetta


di Francesco Curridori tratto da: http://www.fareitaliamag.it/2012/02/28/alla-ricerca/

La “famo” alla francese o all’inglese? Alla tedesca, alla spagnola o all’americana? No, non si pensi male, si tratta della riforma elettorale. Quando si parla di legge elettorale scoppia il caos nei partiti italiani che sono divisi tra loro e al loro interno. Cerchiamo di fare chiarezza.
La Lega Nord, sebbene lo stesso autore dell’attuale legge elettorale, Roberto Calderoli, l’abbia soprannominata “porcellum”, vorrebbe mantenere lo status quo. Tutti gli altri partiti no e, almeno a parole, vogliono reintrodurre le preferenze o quantomeno la possibilità per gli elettori di scegliersi i propri candidati. In realtà, i principali partiti, Pd e Pdl, sono intimamente contrari, mentre l’Idv e i referendari incalliti che devono ancora metabolizzare la bocciatura dei loro quesiti da parte della Corte costituzionale spingono in direzione opposta. Il Terzo Polo vuole il proporzionale per rompere con il bipolarismo muscolare, mentre il Pd e il Pdl vogliono una legge elettorale che preveda un bipolarismo “tendenziale” e perciò cercano di accordarsi per un modello ispanico-tedesco, ma la Lega, se proprio si deve cambiare, guarda al modello spagnolo. Nel Pd in luglio ci si era accordati per il modello ungherese, poi si sono svegliati i referendari veltroniani per la reintroduzione del Mattarellum, ma tutti sanno che i dalemiani preferirebbero il modello tedesco per accordarsi con il Terzo Polo. E fin qui di chiarezza non ve n’è nemmeno l’ombra. Allora cerchiamo di far luce sui vari modelli elettorali esteri di cui sopra.
STATI UNITI: Gli Usa sono una Repubblica presidenziale per cui i poteri del capo dello Stato e del capo del governo si concentrano sulle mani di un’unica persona (ma per controbilanciare il Parlamento americano ha forti poteri di controllo). I due maggiori partiti, quello democratico e quello repubblicano, per scegliere i candidati svolgono le primarie. I sistemi di voto per le primarie dei partiti e per le presidenziali sono sostanzialmente uguali. Vi sono i due candidati dei partiti maggiori che si contendono la vittoria e una miriade di altri candidati che non hanno mai reali possibilità di vittoria e che solo in alcuni rari casi disturbano la corsa dei repubblicani o dei democratici. Gli Stati federali sono suddivisi in collegi uninominali dove il candidato che prende più voti vince e si prende il numero di delegati stabilito per ogni singolo Stato in base alle sue dimensioni demografiche. Delegati che poi andranno a Washington per votare e sancire definitivamente l’elezione del candidato più votato. È per questo che vincere in Florida, in California o a New York è molto più importante che vincere in Alaska. In caso di dimissioni, di morte (es: Kennedy) o di impeachment (Nixon) i poteri sono presi dal vicepresidente fino alla scadenza naturale del mandato.
GRAN BRETAGNA: Anche gli inglesi hanno un sistema maggioritario con collegi uninominali dove il candidato che prende più voti vince ma, a differenza degli Usa, non esiste un bipolarismo perfetto. Oltre ai conservatori e ai laburisti, ormai da tempo stanno avendo sempre maggior consenso i liberaldemocratici, tanto che attualmente sono al governo con i conservatori di David Cameron. Sono molto forti anche i partiti indipendentisti, ma questa è un’altra storia. L’altra grande differenza con gli Stati Uniti è che il capo dello Stato è la regina che ha, grosso modo, gli stessi poteri del nostro Napolitano, mentre il premier può cambiare in autonomia i suoi ministri ma può essere sostituito nel corso della legislatura (vedi Thatcher e Blair).
FRANCIA: La Francia, invece, è una repubblica semipresidenziale e perciò lì si vota due volte. Ad aprile i francesi voteranno per eleggere il capo dello Stato che ha molti poteri ma se li spartisce, appunto, col capo del Governo che viene eletto con le legislative in un secondo momento. Per le presidenziali si vota con un sistema elettorale maggioritario a doppio turno dove il candidato che ottiene il 50% +1 viene eletto subito. Se questo non avviene i due candidati che hanno ottenuto più voti si sfidano al ballottaggio. Per le legislative il sistema è identico con l’unica differenza che al ballottaggio passano tutti i candidati che hanno avuto più del 12,5% dei voti. Il capo dello Stato rimane in carica per cinque anni e può cambiare il premier nel corso della sua legislatura. Questo sistema ha prodotto più volte i casi di coabitazione: presidente di sinistra e premier di destra (Mitterand) e viceversa (Chirac).
GERMANIA: La Germania è una repubblica federale con bicameralismo imperfetto, ovvero Camera e Senato hanno funzioni diverse. Il Senato si occupa dei rapporti con i vari Lander (le nostre regioni) e i suoi membri vengono nominati proprio dai singoli governi federali. C’è un presidente della Repubblica che più o meno è l’equivalente del nostro Napolitano e un cancelliere (premier) che può nominare e revocare i suoi ministri e può essere rimosso prima della scadenza naturale del suo mandato solo attraverso la sfiducia costruttiva (si può cambiare governo solo se c’è un nuovo esecutivo pronto a sostituire il precedente).
Per le elezioni legislative vi è un sistema di voto misto per cui una quota di deputati viene eletta col maggioritario (299 deputati) e l’altra quota viene decisa col sistema proporzionale attraverso il voto delle liste bloccate che si presentano a livello nazionale. Esiste, inoltre, una soglia di sbarramento del 5%. Questo sistema elettorale favorisce lo svilupparsi di un bipolarismo tendenziale, cioè non obbligatorio e può generare anche governi di “grossa coalizione” tra centrodestra (CDU) e centrosinistra (SPD).
SPAGNA: La Spagna è una monarchia costituzionale dove il re corrisponde al nostro capo dello Stato, il premier invece viene eletto dal Parlamento ma ha il diritto di nomina e di revoca dei ministri e può indire elezioni anticipate. Il sistema elettorale spagnolo è quello preferito dalla Lega perché, prevedendo circoscrizioni molto piccole (50, una per ogni provincia), salvaguarda i partiti territoriali e a carattere indipendentista. Siamo all’interno di un proporzionalismo puro, regolato secondo il metodo d’Hondt per cui, per l’attribuzione degli eletti si divide il totale dei voti di ogni lista per 1,2,3,4,5… fino al numero di seggi da assegnare nel collegio, e si assegnano i seggi disponibili in base ai risultati in ordine decrescente. Le liste sono bloccate, cioè non vi è il voto di preferenza, ed è presente una soglia di sbarramento del 3% in ogni collegio così da tagliare la strada ai piccoli partiti nazionali e favorire il bipolarismo e i grandi partiti territoriali come per esempio quelli catalani o baschi. Il Senato è composto per lo più da membri nominati dalle comunità territoriali e si occupa appunto del rapporto tra lo Stato centrale e le periferie.
Come si evince da quanto descritto sopra, in ogni Paese esiste una strettissima correlazione tra la forma di governo e la legge elettorale e perciò non è possibile modificare la seconda, se prima non si studia come modificare la prima. Le forze politiche che attualmente compongono la maggioranza numerica che sostiene Monti inizialmente stavano per commettere questo grave errore, poi si sono ravvedute. La speranza è che le riunioni fatte un po’ alla luce del sole e un po’ sottobanco portino finalmente all’approvazione di una riforma costituzionale ed elettorale complessiva.

A proposito di equità


  December 13, 2011

di Francesco Curridori tratto da: http://www.fareitaliamag.it/2011/12/13/a-proposito-di-equita/

Giusto ieri i sindacati, dopo sei anni di divisioni, si sono ritrovati insieme in piazza per manifestare contro la manovra e chiedere maggiore equità. A proposito di equità, però, bisognerebbe chiederci perché si fa una battaglia per la deindicizzazione delle pensioni minime e non si lotta per un loro aumento concreto? Ci siamo forse dimenticati uno degli slogan berlusconiani più famosi: “Un dovere morale: pensioni più dignitose”? E allora le pensioni al tempo della crisi finanziaria più grande dal 1929 entrano a far parte del dibattito del circuito mediatico nel modo più carente. Il dibattito, se si vuol parlare veramente di equità, non dovrebbe svolgersi soltanto attorno all’abolizione delle pensioni d’anzianità ma piuttosto sui pensionati d’oro che, diversamente dai pensionati baby, ricevono dallo Stato cifre stratosferiche. Anche il ministro Fornero su questo tema è stata vaga. Senza addentrarsi in discorsi universitari di macroeconomia è evidente che non è equa una società dove, da un lato ci sono pensioni che superano i trentamila euro al mese e dall’altro lato altre che non arrivano a cinquecento euro. Le riforme che sono state attuate finora avevano (e hanno) lo scopo di posticipare l’uscita dal mondo del lavoro per dare la possibilità ai giovani di oggi di avere una pensione domani.
Ma se non si favorisce la crescita e i giovani di oggi sono perlopiù precari che vivono grazie alla pensione dei genitori, come si può realisticamente credere che essi un domani avranno la pensione? E se, viceversa, i pochi giovani che hanno un lavoro stabile devono usare metà del loro stipendio per aiutare i propri genitori a pagare l’affitto o la badante, che senso ha allungare l’età pensionabile? In sostanza la riforma pensionistica del governo è giusta ma non è equa, se insieme al tema delle pensioni non si affronta quello della precarietà. Se i nostri genitori andranno in pensione a 67 o 68 anni non avremmo risolto il problema delle pensioni dei giovani che, in quanto precari, non possono permettersi di pagarsi i contributi con regolarità. Sarebbe equa una riforma che, a saldi invariati, stabilisca che all’interno dell’attuale torta di spesa pensionistica si possa togliere, con un sostanzioso contributo dei solidarietà, la ciliegina a quei dirigenti pubblici che, a causa di leggi inique, hanno accumulato più pensioni insieme e che ora percepiscono dallo Stato più di mille euro al giorno. Un esempio è Giuliano Amato che, interpellato su un’eventuale riduzione della sua pensione, ha risposto: “Non capisco la domanda…”
E a proposito di costi della politica, anche la polemica innescata in questi giorni sugli stipendi dei parlamentari non è stata affrontata nella sua interezza. È vero infatti che le spese di segreteria in Italia, diversamente dagli altri Paesi europei, sono a carico del deputato e questo genera spesso disparità e lavoro nero o precario. All’estero essi dipendono direttamente dal Parlamento e tutte le spese che i parlamentari devono affrontare quotidianamente (viaggi, alloggi o vitto) sono rimborsate solo dopo essere state realmente effettuate e non attraverso lo strumento della diaria come avviene nel nostro Paese.
Sempre a proposito di equità ci si dovrebbe chiedere perché anziché reintrodurre l’ICI o aumentare l’IRPEF regionale non si è pensato di intervenire in modo più deciso sulle privatizzazioni? Eminenti economisti come Alesina e Giavazzi (ma non solo) hanno più volte sostenuto la necessità di vendere quelli che a destra e a sinistra sono chiamati i “beni di famiglia” come Finmeccanica, Eni, Rai ecc… La loro tesi è più che condivisibile: i gioielli di famiglia si vendono proprio per uscire dai momenti di crisi. Non si capisce se all’interno della classe politica italiana sia maggiore il timore di svendere il patrimonio pubblico o quello di non poter più nominare il presidente, il direttore generale e l’amministratore delegato dei vari enti pubblici…

Le uova a Giannino? Colpa dei conservatori inconsapevoli

di Francesco Curridori tratto da:http://www.fareitaliamag.it/2011/12/02/le-uova-a-giannino/


Conservatori e liberali. Mai come in questo momento queste due categorie ideologiche e ideali tendono a confondersi. La contestazione che ieri ha subito Oscar Giannino alla Statale di Milano è degna del peggior conservatorismo retrogrado di sinistra. Una sinistra che, almeno per quanto riguarda le sue ali estreme e la sua base, ha mal digerito l’esecutivo di Mario Monti, visto come il governo dei banchieri e dei poteri forti. La presentazione della riforma delle pensioni sta già creando malumori all’interno dello stesso Pd e dei sindacati.
Ogni qual volta si prova a dar vita a un dialogo concreto e costruttivo su alcune riforme liberali che l’Italia aspetta da tempo, ci si imbatte sempre nel corporativismo delle caste da un lato e nell’ostruzionismo dei “progressisti” dall’altro. Anche quando si parla di pensioni ci si ritrova davanti alla casta dei sindacati mentre quando si parla di liberalizzazioni o privatizzazioni come nel caso dei servizi pubblici urbani il partito trasversale della spesa pubblica innalza le sue barriere.
Il problema non riguarda solo il rapporto tra i liberali veri e la sinistra conservatrice ma anche quello tra i liberali e l’area politico-culturale del centrodestra. A livello parlamentare, infatti, l’abolizione dell’ordine degli avvocati prevista in una delle varie manovre presentate questa estate dal governo Berlusconi ha visto la resistenza della pletora di deputati-avvocati della precedente maggioranza. Se quindi è uso comune tarpare le ali ai liberali dentro lo stesso centrodestra, non ci si può meravigliare se un gruppo di giovani estremisti di sinistra non danno la parola a un liberale vero come Oscar Giannino. Certo, essere favorevoli all’abbassamento delle tasse e opporsi alla patrimoniale così come predica Giannino può sembrare inusuale e improprio in questo momento ma non permettere neppure che alla Statale di Milano si apra un dibattito sull’euro è quanto di più illiberale ci possa essere.
È proprio in un momento cruciale come questo che non solo si deve aprire il dibattito e il confronto su quali politiche economiche adottare per salvare l’euro e, data l’ampia maggioranza parlamentare, tutte le forze politiche dovrebbero lavorare per creare consenso attorno a queste riforme. Le alternative sono poche: o restare fermi nel proprio conservatorismo, portare l’Italia al default e far crollare l’euro oppure abbandonare l’idea di uno scontro politico-economico con Francia e Germania ed essere protagonisti insieme a loro del salvataggio nostro e dell’Europa.
Ci si potrebbe chiedere: perché il lancio di un paio di uova a un giornalista di ispirazione liberale desta tanto scalpore e tanta preoccupazione? Perché è illiberale e antidemocratico oppure perché può fermare l’attuazione delle riforme chieste dall’Europa? No, nulla di tutto questo. L’aspetto preoccupante è che se manca il dialogo manca la possibilità di favorire il compromesso tra le parti avverse e di creare consenso e senza il consenso diminuiscono le possibilità che certe misure drastiche vengano digerite dall’elettorato. La mancanza di un confronto con la società civile potrebbe ben presto dare maggiore spinta alle pulsioni antieuropeiste e fagocitare l’antipolitica e le forze estreme extraparlamentari. In senso lato, paradossalmente, è più difficile mettere d’accordo una maggioranza composta da oltre 500 deputati che una maggioranza risicata di 316 membri perché sono maggiori gli interessi che ogni singola forza politica deve salvaguardare. Anche un piccolo episodio come quello capitato a Oscar Giannino è quindi la spia di un allarme più generale, di una nuova contrapposizione tra liberali veri e conservatori ‘inconsapevoli’.

Un passo indietro e mille avanti

di Francesco Curridori tratto da: http://www.fareitaliamag.it/2011/11/17/un-passo-indietro/


Il governo Monti ha giurato, ma il berlusconismo è archiviato? Tolto “l’alibi Berlusconi”, non si può più sbagliare: si devono fare in gran fretta le riforme chieste dall’Unione Europea e per questo il governo Monti deve avere il più ampio sostegno politico e sociale possibile. L’atmosfera di unanimismo che circonda il neonato esecutivo è dovuta all’effetto novità tipico dei primi mesi di attività, ma cosa accadrà quando il Parlamento dovrà approvare le riforme lacrime e sangue?
Se, da un lato, in questa fase i partiti hanno dovuto necessariamente fare un passo indietro, a breve ne dovranno fare mille in avanti per spiegare al proprio elettorato il voto favorevole a riforme così impopolari che verranno attuate da tecnici anziché da politici, per la paura di questi ultimi di perdere troppi consensi. Non si tratta della solita critica verso l’incapacità della politica nel trovare soluzioni a problemi che vengono affidate ai tecnici, ma della constatazione che non si deve fare l’errore di credere che, con questa operazione, la politica venga messa in disparte. Anzi, ben venga il governo tecnico per il ritorno della politica.
La decisione del Pdl di sostenere il nascente governo, sganciandosi così dall’abbraccio mortale della Lega Nord è politica e lo sarà ancora di più se questa rottura permetterà l’approvazione di quelle riforme liberali che finora, proprio per colpa dei leghisti, non sono state possibili, ossia la riforma delle pensioni e l’abolizione delle province. È politica la scelta della Lega di andare all’opposizione anche perché un governo tecnico, che ha già il peccato originale di essere staro nominato e non eletto, senza un’opposizione parlamentare sarebbe stato doppiamente azzoppato. È una scelta di mero opportunismo politico quella del Pd di bocciare la nomina di Gianni Letta a sottosegretario alla presidenza del Consiglio per non rompere con l’Italia dei Valori. Nomina che sarebbe stata di altissimo profilo ma che, come si è visto, ha subito innescato una serie di veti incrociati che rischiavano di far saltare il Governo del presidente.
Un governo di larghe intese misto tecnici-politici non sarebbe durato un minuto. Se il Pd e il Pdl avessero dato il via libera a Letta e Amato, anche il Terzo Polo si sarebbe sentito in diritto di proporre un suo esponente all’interno del governo e a quel punto si sarebbero dovute mettere sullo stesso tavolo personalità politiche che fino a un secondo prima si erano combattute ferocemente. Un governo costituito esclusivamente da tecnici può dar vita a quelle maggioranze larghe e trasversali che possono approvare almeno due norme anti-casta: la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione dei vitalizi. Ecco perché è importante che la politica, nel momento stesso in cui fa un passo indietro permettendo la nascita di un governo di tecnici, ne faccia mille in avanti sostenendolo convintamente. Se si pensa, così come ha fatto Italo Bocchino, di tirare per la giacchetta il tecnico Monti, attribuendogli candidature politiche ancor prima che abbia ricevuto la fiducia parlamentare come presidente del Consiglio, si fa un errore politico gravissimo.
È impensabile che il governo Monti riesca in un anno e mezzo ad approvare tutte quelle riforme liberali che ci chiede l’Europa e che Berlusconi propone da 17 anni senza l’appoggio convinto della politica nella sua più alta espressione, cioè il Parlamento. È lì che, tolto “l’alibi Berlusconi”, la politica si deve riformare per arrivare a una ristrutturazione del panorama politico che consenta, da un lato, la ricomposizione dei moderati e, dall’altro, la riaffermazione del bipolarismo attraverso la scomparsa del fenomeno della proliferazione dei gruppi parlamentari.

Non siano i dinosauri a decidere delle nostre pensioni

di Francesco Curridori tratto da: http://www.fareitaliamag.it/2011/10/25/non-siano-i-dinosauri/

 Segnalazione, raccomandazione, cooptazione. Qui Pd, Pdl e correnti varie c’entrano ben poco o quasi. La situazione dei giovani in Italia prescinde dalla politica, o meglio la situazione dei giovani impegnati in politica è lo specchio della precarietà e dello smarrimento che molti della mia età vivono attualmente. Le varie correnti nate di recente nel Pd dalla volontà di giovani trentenni e quarantenni intendono sbarazzarsi della classe dirigente che governa la sinistra dagli ultimi venti o trent’anni.
In principio erano soltanto rottamatori, ora sono anche giovani turchi o giovani curdi, zingarettiani o “civacchiani” (neologismo per indicare i “seguaci” di Civati e Serracchiani) etc. A differenza dei black block apolitici e anarchici che hanno devastato Roma, questi sono tutti giovani impegnati in politica ma impegnati soprattutto ad affrancarsi dalla vecchia classe dirigente da cui spesso sembrano cercare l’approvazione. La frammentarietà dei giovani democratici deriva dalla difficoltà di avere dei punti di riferimento, delle personalità da cui prendere esempio e non da rottamare. Bisogna però riconoscere che almeno a sinistra qualcosa si sta muovendo anche se c’è il rischio che queste leve emergenti ragionino con gli stessi schemi mentali dei vari D’Alema e Veltroni.
I giovani in politica non possono essere la brutta copia dei “dinosauri”. Le differenti visioni sulla politica economica che in questi giorni sono state presentate in casa Pd rischiano di sostituire l’eterna lotta tra dalemiani e veltroniani con la lotta tra i giovani turchi di Stefano Fassina che si richiamano alla socialdemocrazia e i giovani curdi che propongono una ricetta economica più liberale e meno legata ai sindacati.
Nel centrodestra, invece, da questo punto di vista c’è un immobilismo totale. La palla è in mano agli Stracquadanio di turno che pensano che una ragazza per far politica deve essere bella e intraprendente a letto o in mano agli eterni giovani come Formigoni (che di primavere ne ha sessanta) o ai quarantenni come Angelino Alfano che hanno il peccato originario della cooptazione. L’ex ministro della Giustizia, sebbene esperto e preparato, è stato eletto per acclamazione su indicazione di Silvio Berlusconi e non tramite uno strumento democratico come le primarie. Angelino Alfano è comunque un nome su cui puntare perché se è vero che un vecchio come Berlusconi, nel bene o nel male, ha dato un’anima al centrodestra, solo un giovane può dare un’ossatura al Pdl o meglio al futuro partito di ispirazione popolare. Alfano da solo però non basta e non basta nemmeno la lotta al “velinismo”.  Da una parte Massimo D’Alema e Walter Veltroni, dall’altra Silvio Berlusconi. Forse è arrivato il tempo che i giovani si prendano da soli il futuro e che, senza aspettare benedizioni di chissà quale tipo, diventino loro stessi esempio per i coetanei, per i padri o per i nonni. Non possiamo lasciare che la gestione di una riforma come quella delle pensioni, che riguarda direttamente le nuove generazioni, venga appaltata ai sessantenni e ai settantenni. Non basta e non serve indignarsi, è necessario assumere autorevolezza e imporre la propria agenda setting.

Pezzo sulla legge elettorale pubblicato su fareitaliamag.it


Lo spauracchio del referendum anti-porcellum è sempre più vicino. Il maggioritario puro è la nostra stella polare ma in politica arrivare alle stelle è un traguardo irraggiungibile. È necessario dunque calarsi nella realpolitik italiana e cercare di capire davanti a quali scenari ci pone il referendum. Uno scenario che potrebbe prendere quota col tempo è quello che prevede elezioni anticipate. Il ritorno del 'Mattarellum', così come prospettato dai referendari, non piace alla Lega Nord e ciò potrebbe indurre il partito di Bossi a staccare la spina al governo per andare alle urne in primavera e posticipare inevitabilmente il voto referendario. Ma questa è solo una delle ipotesi sul tavolo ma ora come ora non è più gettonata. È molto più probabile che il Parlamento, sulla spinta referendaria, sia indotto a modificare l'attuale legge che non piace nemmeno al centrodestra in quanto non assicura una maggioranza stabile al Senato. E anche nel caso in cui i quesiti referendari superassero l'esame della Corte costituzionale, si svolgessero in primavera e superassero il quorum del 50% + 1 non produrrebbero necessariamente un automatico ritorno al 'Mattarellum'.
Sia nel secondo che nel terzo caso qui esposti ci troveremo davanti alla necessità di avere una legge elettorale che rispetti i criteri della realpolitik e che sia consona al nuovo assetto partitico-istituzionale a cui l'Italia va incontro. Al di là delle eventuali riforme costituzionali (presidenzialismo, semipresidenzialismo o premierato) che tutti noi ci auguriamo che vengano varate quanto prima, bisogna prendere atto che stiamo entrando nella cosiddetta Terza Repubblica, ossia nell'era del 'postberlusconismo'. Il premier ha infatti in più occasioni ribadito la sua volontà di non ricandidarsi e di lasciare spazio al giovane Angelino Alfano che da neo-segretario del Pdl sta cercando di ricomporre il polo moderato per dar vita anche in Italia al Partito popolare europeo. Questo comporta un ritorno dell'Udc nell'alveolo del centrodestra ma è noto che nemmeno il partito di Casini vede di buon occhio il ritorno al 'Mattarellum'. La realpolitik impone quindi il varo di una legge elettorale che da un lato salvaguardi il bipolarismo e dall'altro prenda atto che il nostro Paese non è fatto dei soli partiti a 'vocazione maggioritaria'.
Se ci dovremo 'inchinare' al proporzionale allora bisognerà capire quale modello di proporzionale sia il più adatto alla realtà italiana. Seguire modelli stranieri, tipo quello spagnolo o tedesco, potrebbe non portare ai risultati sperati per un motivo molto semplice: noi siamo italiani e non spagnoli o tedeschi. Qual è dunque la via italiana al proporzionale che salva 'capra e cavoli'?
Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro nel tempo fino al 1953 quando gli italiani votarono con la cosiddetta 'legge truffa' tanto contestata dall'allora Pci di Palmiro Togliatti. Quella legge, voluta da Alcide de Gasperi, oltre a prevedere ovviamente il voto di preferenza, poneva anche una soglia del 50% più uno per la coalizione a cui sarebbe spettato il premio di maggioranza del 65% dei seggi. Soglia inesistente con questa legge elettorale. Quella legge inoltre garantiva la 'golden share' di un qualsiasi governo al primo partito della coalizione anche senza premio di maggioranza. Ricordiamoci che nel 1953 il polo moderato prese il 49,8%, con la Dc al 40%, e governò per cinque anni anche senza premio di maggioranza. Nel 2008 la coalizione di centrodestra prese il 46,8% col Pdl al 37,3%  e, nonostante il premio di maggioranza, ora è soggetto ai diktat della Lega.
Il mancato raggiungimento del premio di maggioranza da parte della Dc fu una delle cause che nel 1954 determinarono la ‘morte prematura’ della legge truffa ma oggi, dato il momento storico nel quale ci stiamo per incamminare, sarebbe la più idonea. Con l'uscita di scena di Berlusconi, i ‘partiti personali’ (ossia quelli che portano il nome del proprio leader) e gli 'uomini della provvidenza' non troveranno più spazio. Di Berlusconi ce n'è stato, ce n'è e ce ne sarà solo uno. Per affrontare la sfida della 'Terza Repubblica' il centrodestra deve creare un partito di stampo veramente europeo: democratico, aperto alle primarie e non più legato ai personalismi ma capace di essere guida del polo moderato come la Cdu tedesca o il Ppe spagnolo. Non una nuova Dc ma la vera casa dei moderati italiani.

Articolo su Di Pietro pubblicato su fareitaliamag.it a giugno 2011


 “Cosa avrei dovuto fare? Menarlo? Morderlo? Strappargli i capelli finti? Il presidente del Consiglio ti avvicina, in Parlamento non in un sottoscala, e tu come reagisci? Lo ascolti. Tieni la tua posizione. E lo inviti a seguire il tuo intervento”. Antonio Di Pietro prova a difendersi in tutti i modi. Sul suo blog, sul suo profilo Facebook, sul Corriere della Sera e sul Fatto quotidiano. Tutto inutile, il suo elettorato non ha capito il senso del colloquio che lui e Silvio Berlusconi hanno avuto tra i banchi di Montecitorio. E continua a non capirlo.
L'ex pm di Mani Pulite, che in più occasioni ha paragonato il premier al dittatore Vileda, ora cambia strategia politica. Perché? Perché, proprio ora che L'Italia dei Valori è riuscito a battere sia centrodestra sia centrosinistra a Napoli, la terza città d'Italia, il più acerrimo nemico del berlusconismo si trasforma in un leader liberaldemocratico disponibile al dialogo? Essenzialmente per due motivi. Di Pietro ha capito che la vittoria di Napoli e la vittoria dei sì ai referendum non sono attestabili al centrosinistra e nemmeno al suo partito.
La candidatura di Luigi De Magistris aveva due obiettivi nascosti. In caso di sconfitta Di Pietro lo avrebbe indebolito, in caso di vittoria invece si sarebbe liberato di una figura molto ingombrante che stava minando la sua leadership dentro l'Italia dei Valori, un po' come avvenne dentro il centrosinistra quando Sergio Cofferati fu candidato a sindaco di Bologna. Ma Napoli può rivelarsi un'opportunità o una sconfitta politica se non si risolve il problema dei rifiuti.
L'alta partecipazione ai referendum è stata trasversale perché l'acqua e il nucleare, nel bene o nel male, sono temi che toccano tutti e per i quali sono andati ad esprimere la loro opinione nel segreto dell'urna anche vari esponenti del centrodestra come i governatori Zaia e Polverini.
Con Futuro e Libertà che attenta al suo bacino elettorale, il pm di Montenero di Bisaccia non ha altre alternative che riposizionarsi. Dal 2008 ad oggi è già successo tre volte. La prima fu durante la campagna elettorale quando cavalcò la battaglia dell'antipolitica iniziata con il primo V-Day del comico genovese Beppe Grillo e dei suoi fan, i grillini. La seconda, immediatamente dopo le elezioni politiche, quando si rimangiò la parola data al Pd veltroniano di creare un gruppo unico sia alla Camera che al Senato. La terza fu quando si schierò accanto alla Fiom in occasione dei referendum Fiat di Mirafiori e Pomigliano e cercò così di occupare lo spazio lasciato libero (in Parlamento) dalla sinistra radicale.
Ora che il partito di Vendola governa non solo la Puglia, ma anche Milano, e che i sondaggi lo danno sopra l'Idv, intorno al 7%, ecco che Di Pietro si sposta più al centro del Partito democratico. Il funanbolico leader dell'Idv, ora che l'antiberlusconismo si sta espandendo a sinistra con Sinistra ecologia e libertà tanto che a destra con i falchi di Futuro e libertà per l'Italia, per sopravvivere ha l'obbligo di cambiare strategia e allargare i suoi confini elettorali sconfinando nei terreni altrui.
Che Di Pietro punti alla leadership del centrosinistra? Possibile, probabile ma il terreno su cui si gioca la partita è proprio tra l'ex pm e il governatore della Puglia. È lui il vero obiettivo del leader dell'Idv che proprio oggi ha dichiarato di non volere primarie che promuovano “candidati alla Vendola”. A rendere ancora più esplicita questa teoria sono state le parole dello stesso Vendola: “Di Pietro sente restringersi lo spazio a sinistra : la crescita di Sel e il protagonismo del segretario del Pd lo hanno spiazzato e crede che ricollocandolo a destra nella coalizione di centrosinistra possa metterlo in grado di intercettare l'eventuale crisi del centrodestra”. Le probabilità che l'Idv intercetti il voto degli elettori berlusconiani appaiono però assai esigue. Gli elettori in genere tra la copia e l'originale scelgono sempre l'originale....

La diffidenza che blocca il Paese


L'Italia è un Paese bloccato? Liberalizzazioni, nucleare e primarie. Tutto fermo. Non è Fukushima o Berlusconi a fermare le riforme. Non è la paura, è la diffidenza. L'opinione comune, quella della cosiddetta società civile, è che la liberalizzazione della gestione dei servizi pubblici locali generi un aumento dei costi e peggiori i servizi. Il nucleare, invece, è troppo costoso, troppo pericoloso. In definitiva è troppo per noi italiani. È la diffidenza degli italiani verso gli italiani a frenarci. Il recente voto referendario è stato un voto degli italiani contro gli stessi italiani. È questo ciò che i media non hanno avuto il coraggio di dire a chiare lettere. Fukushima ha fermato la Germania, ha influenzato il voto degli italiani, ma i diretti interessati, i giapponesi, sono intenzionati a proseguire con il nucleare. Perché? Forse non hanno paura? No, semplicemente hanno fiducia in se stessi, nella possibilità di reagire presto e bene alla catastrofe che hanno subito. Gli italiani sembrano aver perso fiducia non solo nelle istituzioni, ma anche e soprattutto in se stessi. La classe politica che ci rappresenta è lo specchio della nostra società. Il nucleare in Italia non si farà perché ci si è ormai convinti che nessuno di noi sarebbe in grado di realizzarlo meticolosamente e forse lo smaltimento delle scorie potrebbe finire in mano alla mafia. Insomma, non c'è da fidarsi. Tra il fidarsi e il non fare meglio non fare.Anche per le primarie è valido lo stesso ragionamento. Il tema è stato riproposto da Fabrizio Cicchito e Gaetano Quagliariello nell'agenda della maggioranza solo per sparigliare le carte. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Nessuno le vuole veramente. Se tale strumento fosse istituito per legge, la nomenklatura di destra e di sinistra verrebbe spazzata via. Le primarie sono serie solo se servono a fare emergere una classe politica nuova e giovane. In Italia a livello locale le primarie hanno finora premiato spesso le ali estreme come Nichi Vendola, Giuliano Pisapia e indirettamente anche Luigi De Magistris che ha approfittato del “pasticciaccio” napoletano del Pd. A livello nazionale, invece, sono servite solo a inconorare per acclamazione il candidato premier già designato dall’apparato di centrosinistra. È successo così per Romano Prodi nel 2006 e per Walter Veltroni nel 2008.Ora che la leadership di Silvio Berlusconi pare vacillare, tutti sembrano essersi innamorati delle primarie e tutti si affrettano ad accreditarsi come papabili nuovi leader. Eppure la proposta avanzata in questi giorni sembra nata per puro spirito di autoconservazione. Cambiare tutto per non cambiare nulla, appunto. Anche la sinistra finge di volere le primarie, ma in realtà non le vuole. Bersani, poi, è preso dalla malattia della diffidenza. Non si fida del suo elettorato. Ora che il vento soffia verso il Partito democratico la sua leadership è più salda, ma se si facessero le primarie ci sarebbe il rischio che a spuntarla, alla fine, sia Nichi Vendola. Nel centrodestra, con tutta la serie di pen-ultimatum che Umberto Bossi domenica a Pontida ha posto a Berlusconi, la diffidenza bloccherà nuovamente le riforme. Per quanto alcune proposte (non certo quella di spostare i ministeri al Nord) “in tempi di pace” possano sembrare utili, oggi appaiono come un pretesto per staccare la spina al governo. Ed è così che la riforma istituzionale dello Stato in senso federale diventa merce di scambio, destinata ad aumentare le frizioni all’interno di una maggioranza sempre più divisa. L’idea qualunquista che nulla cambi e che chiunque vinca farà gli stessi errori degli avversari o degli alleati che l’hanno preceduto genera diffidenza verso tutta la classe politica. L’idea che non sia possibile nessuna riforma perché in Italia vige la regola del “fatta la legge, trovato l’inganno” blocca il Paese.

La fase cruciale del Pd


di Francesco Curridori


Lavoro, primarie e cozze. Il Partito democratico si trova a dover affrontare una fase cruciale della sua breve vita.L’appoggio al governo di Mario Monti e le modifiche all’articolo 18 accrescono le distanze tra chi, come i veltroniani o i lettiani, considera l’attuale Esecutivo la vera espressione del riformismo italiano e chi, come i bersaniani di fede socialdemocratica, lo vedono soltanto come un male necessario e temporaneo. I primi hanno accettato e sostenuto senza remore sia la riforma delle pensioni sia la riforma del mercato del lavoro che il ministro del Welfare Elsa Fornero dovrebbe mettere in cantiere già alla fine di questo mese. I secondi Stefano Fassina (responsabile economico del partito) e il dalemiano Matteo Orfini sono sempre attirati dalle sirene della Fiom che sciopera contro la riforma dell’articolo 18, salvo poi rinunciare affermando che la protesta non si doveva estendere anche ai NO TAV.
I «democrat-montiani» poi vorrebbero che la strana maggioranza Pd-Pdl e Terzo Polo si ricomponesse anche dopo le politiche del 2013, mentre sia il segretario Pier Luigi Bersani sia Massimo D’Alema stanno già pensando a come arredare Palazzo Chigi una volta vinte le elezioni. Vittoria che non è scontata visto che sarà sempre più difficile proporre la foto di Vasto come simbolo di unità e pace dei futuri governanti del nostro Paese.
Sia Nichi Vendola sia Antonio Di Pietro, diversamente dal Pd, non sostengono questo governo e il centrosinistra riformista si trova nella difficoltà di dover affrontare le prossime amministrative dovendo cercare di allearsi proprio con l’Italia dei Valori e Sinistra Ecologia e Libertà se vuole vincere. Elezioni che si fanno sempre complicate visti gli esiti delle primarie a Genova e a Palermo. Il primo partito di centrosinistra italiano, che nelle intenzioni dei suoi fondatori sarebbe dovuto essere «a vocazione maggioritaria», continua a subire una sconfitta dietro l’altra in occasione delle elezioni primarie che egli stesso ha introdotto in Italia. In principio fu la Puglia di Vendola, poi Napoli con Luigi De Magistris, Milano con Giuliano Pisapia e Cagliari con Massimo Zedda e ora è il turno di Marco Doria a Genova e di Fabrizio Ferandelli a Palermo. Laddove il candidato vincente non è di gradimento ai vertici del partito si decide di annullare o comunque di non accettare il risultato finale proponendo in ogni caso un proprio candidato. È stato così a Napoli con Mario Morcone e probabilmente sarà così anche per Palermo. Si, è vero, è quasi certo che le primarie a Palermo sono state inquinate da Raffaele Lombardo che ha voluto far vincere un uomo vicino a Giuseppe Lumia, il senatore democratico artefice dell’alleanza tra il Pd siciliano e l’Mpa. Ma è anche vero che il Pd ha presentato due candidati, uno «renziano»(Davide Faraone) e l’altro, appoggiato dalla nomenklatura, è Rita Borsellino che già nel 2006 era stata candidata alla presidenza della regione Sicilia ed aveva perso contro Salvatore Cuffaro. In sostanza un volto «già vecchio» e perciò poco appetibile. C’è da chiedersi quali e quanti saranno i candidati per la poltrona di sindaco del capoluogo siciliano e su quale cavallo punterà il Pd.
E infine ad agitare le acque del Pd ci sono le cozze del sindaco di Bari Michele Emiliano che ha avuto il coraggio di accusare Silvio Berlusconi dichiarando sulle pagine de La Stampa che: «Vero, vent’anni di berlusconismo hanno reso difficile anche per me tenere fuori l’impresa dalla politica. Ho dato per scontato quello che scontato non è. Anzi, non deve essere». Ora dando per assodato che da garantisti non possiamo chiedere le dimissioni ad un sindaco accusato di essere stato corrotto con un paio di chili di cozze, si può indubbiamente pretendere che si smetta di attribuire tutte le colpe e i mali di questo Paese sempre alla stessa persona. Insomma finché la sinistra non uscirà dalla sindrome di Sabina Guzzanti (che vede Berlusconi ovunque) difficilmente riuscirà a dipanare il bandolo delle sue matasse

Il fallimento delle strategie politiche dell'opposizione










di Francesco Curridori
  



lunedì 17 ottobre 2011

Buona anche la cinquantunesima. Con trecentosedici sì il governo ottiene nuovamente la fiducia. A nulla sono serviti gli espedienti delle opposizioni: prima il giochetto di Giachetti di nascondere i deputati Pd prima delle votazioni, poi l'esperimento aventiniano e infine l'escamotage del numero legale. Silvio ce la fa pure stavolta e scoppia il caos dentro il gruppo del Partito democratico con Rosy Bindi che apostrofa i radicali con un eloquente:«stronzi». Ma andiamo con ordine e facciamo un passo indietro. Martedì la Camera ha bocciato il rendiconto dello Stato grazie a un abile giochetto del deputato democratico Roberto Giachetti. Come ha ben spiegato Paolo Guzzanti su Panorama martedì la maggioranza è andata sotto di un solo voto perché Giachetti prima ha fatto uscire dall'aula alcuni suoi colleghi di partito, poi ha lasciato intendere che ci fosse ancora un'ora e infine poco dopo ha chiesto di votare, mettendo in difficoltà i colleghi della maggioranza che per vari motivi «tecnici» si erano assentati dall'Aula credendo di avere tutto il tempo di una telefonata o di una sigaretta.
L'unica decisione che ha unito tutte le opposizioni è stata la scelta di riproporre «l'aventino» non partecipando al discorso di Silvio Berlusconi. Una scelta non condivisa dai radicali che, per rispetto delle istituzioni, si sono presentati in aula e non hanno eseguito gli ordini di una scuderia quale quella del Partito democratico che, per buona parte, ha mal digerito la loro presenza in lista. Premesso che in amore e in guerra ogni mezzo è lecito, i metodi fin qui usati dalle opposizioni per far cadere il governo sono stati improduttivi e antidemocratici perché non hanno portato al risultato sperato e perché privi di una strategia che delinei un'alternativa di governo. Anche se l'opposizione fosse riuscita a convincere i radicali a far mancare il numero legale (al di là del fatto che il loro voto non è comunque stato determinante), tutto ciò che sarebbe nato dopo sarebbe stato molto probabilmente il frutto del caso. Ora si possono usare certi mezzucci e si può pure far cadere un governo anche per un voto ma solo se si vuole poi andare alle urne. Viceversa se al governo sfiduciato si vuole opporre un governo di larghe intese bisogna avere dei numeri ben più ampi altrimenti anche questo nuovo esecutivo dipenderà dall'influenza o dal mal di pancia di qualsiasi peones.
Per il momento i numeri dicono 316 voti per la maggioranza e 301 per le opposizioni e con 15 voti di vantaggio l'ipotesi di un governo tecnico o di larghe intese o «del presidente» pare allontanarsi per sempre, almeno in questa legislatura. Ammesso e non concesso che in primavera si vada a votare oppure no, tralasciando ogni considerazioni di carattere strategico, resta il dato politico riassumibile con una metafora calcistica: se il Milan non stravince, l'Inter non riesce neppure a pareggiare. L'immagine che più resterà impressa di questa cinquantunesima fiducia è ancora una volta quella che rimarca le divisioni della sinistra con i democratici che inveiscono contro i radicali per la loro decisione di non offendere quelle istituzioni sancite dalla Carta costituzionale che tanto viene osannata a sinistra. Le opposizioni in questi tre anni non solo hanno sbagliato tutte le strategie, sperando che la magistratura, le scissioni interne al Pdl o i mal di pancia della maggioranza potessero riempire il loro vuoto politico-programmatico che nemmeno un governo tecnico guidato da Mario Monti avrebbe potuto colmare. Di fronte alle richieste della Bce come avrebbe potuto agire un governo che al suo interno comprendesse tutte le opposizioni e parte della maggioranza?