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venerdì
27 novembre 2009
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Maggioritario o proporzionale?
Presidenzialismo o parlamentarismo? Federalismo si o federalismo no? Su
questi tre quesiti si interrogano i politici della Seconda Repubblica per porre fine alla lunga transizione italiana
iniziata dopo Tangentopoli. Certamente non si può dimenticare che anche nella
fase finale della Prima Repubblica, sull'onda di quelle inchieste giudiziarie
gestite dalla banda di toghe rosse guidata da Di Pietro, ci fu la modifica di
un articolo della nostra Carta, ovvero l'art. 68 relativo all'immunità
parlamentare con gli effetti che tutti conosciamo tanto che oggi si lavora
per ripristinarlo.
Durante la Seconda Repubblica le riforme relative
all'assetto politico-istituzionale dell'Italia sono state fatte o tramite
referendum o a colpi di maggioranza.
Nei primi anni '90 infatti furono i referendum voluti da Mariotto Segni a
decretare l'addio al proporzionale e l'inizio di una nuova era che, insieme
all'elezione diretta del sindaco e poi del presidente di Regione, ha
determinato la nascita del bipolarismo. In sintesi è lecito ancora parlare di
transizione perché l'opera dei referendari non è stata portata a termine con
una riforma costituzionale che prevedesse maggiori poteri per il Presidente
del Consiglio.
Si sta ancora discutendo su quale sia forma
migliore: se il cancellierato tedesco, il
premierato inglese, il semipresidenzialismo francese o il presidenzialismo
puro all'americana, ma non si è ancora arrivati ad una sintesi comune tra
maggioranza e opposizione. Ecco, in questi due termini sta la chiave di
lettura perché nell'era del bipolarismo si è visto che chi era al governo
ieri oggi sta all'opposizione e viceversa. Questo dovrebbe far riflettere
sulla necessità di lavorare insieme per approvare riforme condivise così come
auspicato sia da Gianfranco Fini, Presidente della Camera, sia da Fabrizio
Cicchino, capogruppo del Pdl alla Camera.
L'unica riforma che è stata capace di attuare la
sinistra negli ultimi quindi anni è stata quella del titolo V della
Costituzione con un colpo di mano e a pochi giorno dallo scadere della
legislatura 1996-2001, sotto il
diktat dell'allora sindaco di Roma Francesco Rutelli, futuro candidato premier.
Quella riforma, voluta appunto a colpi di maggioranza, ha introdotto un finto
federalismo e ha prodotto dei continui conflitti di attribuzioni di poteri
tra regioni e Stato centrale. Oggi come allora la sinistra, diventata pseudo
«democratica», ma guidata da un segretario occulto molto poco postcomunista
(Massimo D'Alema), è ancora legata ai diktat dei dipietristi per
quanto riguarda la riforma della giustizia e ai «puristi» della Costituzione
(come l'ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro) per colpa dei
quali nel 2004 non passò il referendum confermativo della riforma varata dal
centrodestra. All'interno del Partito Democratico c'è però da parte di molti
l'intenzione di accettare l'invito della maggioranza a ripartire dalla
famigerata «bozza Violante» che fu presentata nella scorsa legislatura e
anche l'ex ministro ai Rapporti col Parlamento Vannino Chiti, in questi
giorni, all'agenzia stampa Il Velino, si è detto favorevole a seguire questa
strada.
È anche vero che le regionali si avvicinano e che il
centrosinistra si trova nella difficoltà di dover ricreare una «santa
alleanza antiberlusconiana» che
comprenda sia l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro sia l'Unione di Centro
di Pierferdinando Casini che sulla giustizia e sulle riforme hanno visioni
completamente opposte. Se da un lato il leader centrista è disposto ad
approvare il lodo Alfano per via costituzionale, dall'altro non voterebbe mai
una riforma federalista, come ha fatto invece l'ala dipietrista. Anche
laddove le convergenze tra maggioranza e opposizione sono maggiori, come nel
caso della riduzione del numero dei parlamentari, tutto è bloccato per motivi
propagandistici e di convenienza politica. La domanda da porsi allora è: a
quando la nascita in Italia di una sinistra davvero riformista?
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