domenica 12 febbraio 2012

Lo stato confusionale del Pd


 

di Francesco Curridori
  



sabato 05 settembre 2009


Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino. Dalle azioni di questi tre candidati alla segreteria dipenderà il futuro del Partito Democratico. Chi vincerà dovrà dettare la linea politica anche alle altre due anime e chi perderà dovrà contenere le critiche interne provenienti dalle componenti minoritarie, o per meglio dire uscite sconfitte dal congresso e dalle primarie. Queste ultime rappresentano la mancanza reale di un progetto politico e la debolezza di una classe dirigente ormai vecchia e in declino.
A differenza delle primarie americane che durano circa un anno e mezzo e che si svolgono in un contesto di ampio dibattito, quelle italiane si concentreranno in un solo giorno. In un solo giorno dei semplici elettori, non necessariamente solo gli iscritti, decidono il destino di un partito. E questo verrà deciso senza una reale discussione interna perché il Pd, demandando la scelta agli elettori delle primarie, ha tolto completamente al congresso il suo originario valore. Gli iscritti sono stati depredati del loro potere decisionale e si è fatta una operazione di americanizzazione per trasformare loro in aderenti o simpatizzanti e le vecchie sezioni sono diventati circoli privi di significato. Tutto ciò lo si è fatto senza tener conto che l’elettorato italiano di sinistra è differente da quello di centrodestra, composto da sempre da quel che una volta si chiamava “maggioranza silenziosa” proprio perché non avvezza a scendere in piazza. A sinistra, invece, c’è sempre stata una militanza organizzata costruita dagli uomini delle tessere: del PCI, della FGCI e della CGIL e dagli abbonati dell’Unità.
Oggi non esiste un movimento giovanile organizzato e l’Unità non è più un giornale di partito e l’elettorato di sinistra si sente sperduto. Ma nello stesso tempo il Pd di oggi è quello di ieri, ossia non solo la sua classe dirigente è la stessa di quindici anni fa, ma è composta da uomini nati tutti nella Prima Repubblica: D’Alema è l’ex presidente della FGCI, Franceschini è stato il delfino di Andreatta, Rutelli e la Bindi sono politici navigati ecc... La colpa di questa situazione è rintracciabile nel dna della sinistra, abituata ad essere assoggettata ai gruppi di potere delle oligarchie di partito. Era così nel PCI ed è così nella PD.
È sul tema della leadership e della linea politica che consiste la grande differenza tra PDL e PD. Alla sinistra non manca solo una leadership, ma il concetto stesso di leadership non è mai esistito perché l’ideale comunista prevede di collettivizzare tutto, anche il potere. La linea politica è impossibile imporla tra ex nemici: comunisti e democristiani, atei laici e credenti praticanti cattolici, filosovietici e filoamericani. La nascita del Partito Democratico aveva proprio lo scopo di fondere in un solo partito diverse anime politiche nel nome di un finto riformismo anche attraverso l’idea dei due candidati principali, Bersani e Franceschini, di scopiazzare il programma obamiano sul tema della green economy. Come se non bastasse ora, dopo la vittoria del Pd giapponese, si è rivisto Romano Prodi con dichiarazioni trionfanti che lasciano intendere l’arrivo di un vento di cambiamento anche per l’Italia. Se non fosse vero ci sarebbe da ridere, ma purtroppo è vero e ciò non fa ben sperare per il futuro della sinistra italiana.

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