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sabato
05 settembre 2009
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Pierluigi Bersani, Dario
Franceschini e Ignazio Marino. Dalle azioni di questi tre candidati alla
segreteria dipenderà il futuro del Partito Democratico. Chi vincerà dovrà dettare la linea politica anche
alle altre due anime e chi perderà dovrà contenere le critiche interne
provenienti dalle componenti minoritarie, o per meglio dire uscite sconfitte
dal congresso e dalle primarie. Queste ultime rappresentano la mancanza reale
di un progetto politico e la debolezza di una classe dirigente ormai vecchia e
in declino.
A differenza delle primarie
americane che durano circa un anno e mezzo e che si svolgono in un contesto di
ampio dibattito, quelle italiane si concentreranno in un solo giorno. In un solo giorno dei semplici elettori, non
necessariamente solo gli iscritti, decidono il destino di un partito. E questo
verrà deciso senza una reale discussione interna perché il Pd, demandando la
scelta agli elettori delle primarie, ha tolto completamente al congresso
il suo originario valore. Gli iscritti sono stati depredati del loro potere
decisionale e si è fatta una operazione di americanizzazione per trasformare
loro in aderenti o simpatizzanti e le vecchie sezioni sono diventati circoli
privi di significato. Tutto ciò lo si è fatto senza tener conto che
l’elettorato italiano di sinistra è differente da quello di centrodestra,
composto da sempre da quel che una volta si chiamava “maggioranza silenziosa”
proprio perché non avvezza a scendere in piazza. A sinistra, invece, c’è sempre
stata una militanza organizzata costruita dagli uomini delle tessere: del PCI,
della FGCI e della CGIL e dagli abbonati dell’Unità.
Oggi non esiste un movimento
giovanile organizzato e l’Unità non è più un giornale di partito e l’elettorato
di sinistra si sente sperduto. Ma nello
stesso tempo il Pd di oggi è quello di ieri, ossia non solo la sua classe
dirigente è la stessa di quindici anni fa, ma è composta da uomini nati tutti
nella Prima Repubblica: D’Alema è l’ex presidente della FGCI, Franceschini è
stato il delfino di Andreatta, Rutelli e la Bindi sono politici navigati ecc...
La colpa di questa situazione è rintracciabile nel dna della sinistra, abituata
ad essere assoggettata ai gruppi di potere delle oligarchie di partito. Era
così nel PCI ed è così nella PD.
È sul tema della leadership e della linea politica
che consiste la grande differenza tra PDL e PD. Alla sinistra non manca solo una leadership, ma il concetto stesso di
leadership non è mai esistito perché l’ideale comunista prevede di
collettivizzare tutto, anche il potere. La linea politica è impossibile imporla
tra ex nemici: comunisti e democristiani, atei laici e credenti praticanti
cattolici, filosovietici e filoamericani. La nascita del Partito Democratico
aveva proprio lo scopo di fondere in un solo partito diverse anime politiche
nel nome di un finto riformismo anche attraverso l’idea dei due candidati
principali, Bersani e Franceschini, di scopiazzare il programma obamiano sul
tema della green economy. Come se non bastasse ora, dopo la vittoria del Pd
giapponese, si è rivisto Romano Prodi con dichiarazioni trionfanti che lasciano
intendere l’arrivo di un vento di cambiamento anche per l’Italia. Se non fosse
vero ci sarebbe da ridere, ma purtroppo è vero e ciò non fa ben sperare per il
futuro della sinistra italiana.
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